Franco Cardini, Non è poi così lontana Maracanda, “La Stampa – Tuttolibri”, 13 luglio 2019
Un viaggio di Vittorio Russo nell’antico Uzbekistan partendo dalle conquiste di Alessandro Magno. Così la Samarcanda dei Greci divenne la favolosa capitale tartaro-persiana sulla Via della Seta
Parlare della regione dell’Uzbekistan significa parlare di un territorio, parte dell’antica Sogdiana, dalle tradizioni millenarie e fino dall’antichità terra d’incontro fra culture: quella cinese ad est, quelle nomadi uraloataiche a est e a nord-est, quelle indopersiane a sud. I popoli nomadi noti come «uzbechi » e la loro lingua si andarono insediando tra le vallate dei fiumi Syr-Darya e Amu- Darya (lo Jaxarte e l’Oxo) nel corso del XV secolo, dopo la morte del conquistatore Timur «Tamerlano»: ma i sogdiani, gente indoeuropea, vi abitavano allora da circa duemila anni prima; e gli arabo-persiani vi avevano portato l’Islam da circa l’VIII secolo d.C. Sulla collina adesso a nordest dell’impianto urbano di Samarcanda, all’interno di un incredibile parco archeologico da poco restaurato e ordinato, sono stati riportati in luce affreschi di circa il VI-V secolo a.C. raffiguranti una corte principesca e una carovana che sono tra i reperti più belli e preziosi di tutta l’antichità.
Appunto, Samarcanda: l’antica Afraziab. Un nome che da solo evoca una civiltà di sogno, un nome che sa di Mille e Una Notte, di seta e di spezie. Eppure, la sua realtà storica non è così remota né così favolosa come potrebbe sembrare. «Non è poi così lontana Samarcanda », stando a un altro cantautore, Roberto Vecchioni. Fra il III-II millennio prima di Cristo e i primi secoli della Modernità, e ancora più tardi, un fascio di sentieri ora marcato nella pietra, ora appena segnato sull’erba o sulla sabbia, conduceva dalla Grande Muraglia fino alle spiagge e alle scogliere del Mediterraneo. Oggi, il «Road and Belt Program» varato dai cinesi fino dal 2013 e al quale di recente anche molti soggetti italiani si sono dichiarati interessati, sfiora anche il territorio uzbeko.
Il libro di Russo, pubblicato dalla Teti, indaga soprattutto e anzitutto sulle gesta del Grande Alessandro in Asia centrale, alla fine del IV sec. a.C: l’Afrasiab del fiero popolo dei cavalieri di Sogdiana divenne la Maracanda sede d’una florida facies culturale indoellenica e quindi la favolosa e sognata centrale tartaro-persiana sulla Via della Seta che per alcuni anni tra XIV e XV secolo fu il centro della potenza «imperiale » di un principe musulmano turcomanno che costituì prima la viva speranza dell’Occidente – si pensò che fosse l’uomo adatto a liberare l’Europa dalla «Grande Paura» degli ottomani -, poi una «Grande Paura » egli stesso. Timur, detto dai suoi avversari «Tamerlano» (una parola che in persiano significa «Timur lo Zoppo») fra Tre e Quattrocento si costruì un immenso impero che dall’Uzbekistan attuale arrivava fino alla Persia, alla Siria e all’Anatolia. Ferocissimo eppure colto e sensibile, fu un grande distruttore di città (saccheggiò Baghdad, Damasco e Delhi) ma un costruttore ancora più grandioso di città e di moschee. Morì nel 1405 cercando di attraversare settantenne, d’inverno, la catena dell’Indo Kush per conquistare la Cina; tra i suoi successori, l’emiro Ulugh Beg divenne famoso per aver costruito, proprio a Samarcanda, un immenso osservatorio stellare.
Chi visita oggi Samarcanda, si trova dinanzi a una fantasmagorica città di rosse mura e di cupole color turchese, con un centro asiatico incredibile e una piacevole area occidentale in stile russo-coloniale del XIX secolo e, forse, con un’accentuazione un po’ troppo «visibile » sulle geniali e simpatiche (ma filologicamente pericolose…) campagne di restauro condotte dall’energica volontà del dittatore Islam Karimov, un Padre-Padrone disinvoltamente passato, sullo scorcio tra secondo e terzo millennio, dall’ateismo socialista sovietico al nazionalismo musulmano innovatore.
Ma Samarcanda è incredibile: la visiti, la percorri, e ti trovi immerso nella leggenda di Tamerlano, quindi nel «Grande Gioco» coloniale anglorusso, poi nell’epicità terribile della Rivoluzione d’Ottobre e ancora nel divertente puzzle della truffa del cotone inesistente venduto in immense immaginarie quantità e a peso d’oro a Mosca, ma con l’annesso – quello sì davvero drammatico – episodio del prosciugamento del lago d’Aral, dovuto appunto agli esperimenti sovietici di «irrigazione razionale» (!) del cotone. E infine la storia straordinaria della «collina del Re Immortale»: il sepolcro-santuario di un martire musulmano la leggenda del quale ricorda sia quella del martire cristiano san Miniato a Firenze, sia quella del vescovo-martire Dioniso a Parigi che sta alla base del santuario di Montmartre, Mons Martyris. Per non parlare poi del grande antropologo professor Gerasimov, che all’inizio degli Anni Quaranta voleva scoperchiare il sepolcro di Tamerlano per riprodurne l’immagine somatica. Ma c’era una vecchia leggenda in città: guai a violare il riposo dell’emiro. Il professor Gerasimov, da buono scienziato sovietico, insisté: a alla fine riuscì ad appellarsi perfino al compagno Stalin.
Ma il Vojd («capo», «guida»: così lo chiamavano nell’URSS) era molto superstizioso e della leggenda aveva paura. Alla fine, esausto, si lasciò convincere dall’insistenza del professore. L’esumazione del conquistatore tartaro avvenne il 21 giugno del 1941: il giorno dopo, le truppe di Hitler invadevano l’Unione Sovietica. «Lo dicevo io!», si limitò a commentare Stalin dinanzi al terrorizzato Gerasimov.
Vittorio Russo è viaggiatore e scrittore. Ha pubblicato ricerche sulle origini delle religioni e del cristianesimo. Dai suoi viaggi sono nati libri. Fra i titoli: «India mistica e misteriosa» (Firenze Libri), «Quando Dio scende in terra», «Transiberiana» (entrambi per Teti)
Vittorio Russo, «L’Uzbekistan di Alessandro Magno», Sandro Teti editore, pp.416