
ADRIANO FAVOLE, “La Lettura”, 30 giugno 2019
Cartografi come Bartolomeo Borghi e Adriano Balbi ebbero un ruolo importante nella definizione e descrizione dell’ultima parte del mondo esplorata dagli europei
Qualche anno fa, in un anonimo mercato delle pulci a Cherasco, in provincia di Cuneo, avevo trovato un antico libro in francese, edito a Parigi nel 1843. Voyage autour du monde, questo il titolo, un «Viaggio intorno al mondo» dell’ammiraglio Jules Dumont d’Urville, il celebre geografo ed esploratore francese del Pacifico a cui, in genere, si attribuisce l’invenzione, nel 1832, delle partizioni e dei nomi dell’Oceania: Australia per il (quasi) continente; Melanesia (le «isole nere» in relazione al colore della pelle degli abitanti indigeni) per la parte occidentale; Polinesia per la parte orientale del Pacifico; Micronesia per gran parte delle isole che si trovano nell’emisfero nord. Cedendo per un attimo a pensieri magici, avevo pensato che fosse stato quel libro a cercare me e non viceversa, visto che sono una delle poche persone a insegnare Antropologia dell’Oceania in Italia. Mi sono a lungo chiesto come diavolo ci fosse arrivato e che cosa ci facesse, in una qualche soffitta di Cherasco, un libro di Dumont d’Urville.
Una lunga ricerca compiuta da un antropologo francese di origine italiana, Richard Cagnasso, offre ora una risposta sorprendente, destinata a stravolgere molti cliché della storia cartografica del Pacifico. Tra la fine del Settecento e i primi tre decenni dell’Ottocento, l’epoca in cui prende forma la cartografia e l’attribuzione di nomi alla «quinta parte» di mondo che oggi chiamiamo Oceania, le scuole italiane, sarebbe forse meglio dire in lingua italiana, di geografia e cartografia ebbero un ruolo di primo piano nel battezzare l’Oceania. A Venezia, Milano, Firenze, Genova, Napoli e Livorno, intellettuali, eruditi, artisti della carta geografica, in stretto contatto con i loro «pari» (come si direbbe oggi nel gergo universitario) di Parigi, Londra, Vienna, Lisbona ecc., dibattevano, spesso con toni accesi, su come si dovesse suddividere e nominare questa ultima parte di mondo, di cui i viaggi di James Cook, Samuel Wallis, Louis de Bougainville e altri esploratori avevano rivelato i contorni.
Facciamo però un passo indietro. A metà del Settecento, gran parte del mondo australe che si estende oltre l’Indonesia e fino alle coste americane, era sconosciuto agli europei. Charles de Brosses, nel 1756, usava l’espressione «Terre Australi » per definire quel «vuoto» parziale; altri avevano ripreso l’espressione «I mari del Sud» coniata nel 1513 da Vasco de Balboa. In Italia come altrove, Mari del Sud era destinata a divenire un’espressione dal forte potere esotico ed evocativo. Dopo Cook, fu un francese di adozione, Conrad Malte-Brun, a inventare Oceanica (in assonanza con America e Africa), termine corretto in Oceania da un altro studioso francese, Adrien-Hubert Brué (1816). Tuttavia, e qui cominciano le sorprese, Oceania si affermò nel contesto internazionale piuttosto tardi, e con il contributo decisivo di studiosi come Adriano Balbi e Bartolomeo Borghi.
Oceania infatti era in competizione con altre espressioni come Mondo Marittimo, Isole Asiatiche, Polinesia, usate da alcuni per definire quel nuovissimo mondo. Una babele di proposte per il tutto, per non parlare delle sue parti: prima di divenire Australia, il (quasi) continente fu a lungo Notasia (Asia del Sud), Ulimaroa, Nuova Olanda, un’espressione, quest’ultima, che molti studiosi italiani definivano «assurda». Il napoletano Luigi Galanti introdusse il termine «Meganesia », «grandi isole», a indicare l’area che dall’attuale Indonesia si estendeva fino alla Nuova Guinea.
Guardare con occhi storici la carta geografica ha il potere di renderla fluida, di «denaturalizzarla» e «decolonizzarla», di mettere in luce le scelte, a volte arbitrarie e casuali, più spesso legate a dinamiche di potere, che furono all’origine dei nomi e delle divisioni. Di colpo l’Atlante ridiventa una rappresentazione del globo e non il «vero» mondo. Rileggere la produzione di Adriano Balbi, un incredibile intellettuale cosmopolita di origine veneziana, che nei primi decenni dell’Ottocento si muove tra Parigi, Londra, Lisbona e Vienna, fornisce strumenti straordinari al proposito. Studioso eccentrico e poliedrico, Balbi difese a lungo l’idea che i popoli, compresi quelli dell’Oceania, potessero essere classificati solo attraverso lo studio delle lingue, l’«etnografia».
Fu lui, a quanto pare, il primo a introdurre in italiano la parola stessa (come ha osservato Sandra Puccini), fu lui il primo a pubblicare un Atlante etnografico del globo (è del 1826 la prima edizione in francese). Balbi era un monogenista, convinto sostenitore dell’origine unica dell’umanità. Per questo, non lo convinceva affatto l’idea di chiamare «Melanesia » la parte più occidentale dell’Oceania, per il colore della pelle prevalente di quelli che furono poi chiamati aborigeni australiani e, appunto, melanesiani.
Un altro (pre) italiano la pensava così. Bartolomeo Borghi di Firenze propose, nel suo Atlante Generale (1819), l’opposizione tra la Meganesia di Galanti e quella che egli chiamò Micronesia. Se Meganesia è scomparso dal nostro orizzonte cartografico, Micronesia è divenuto un modo «naturale» di definire le isole pacifiche dell’emisfero nord. Qualche anno più tardi, come dicevo in apertura, Dumont d’Urville, geografo al servizio del potente impero francese, finì a sua volta per contrapporre a Micronesia il termine Melanesia.
Fu, questa, la consacrazione di una lettura «razziale» e «razzista» di quel mondo, in cui le ipotesi universaliste e monogeniste di Balbi e Galanti uscirono sconfitte. La Nuova Olanda diverrà definitivamente Australia, completando così la toponomastica generale dell’Oceania.
Dumont d’Urville, in definitiva, fu solo colui che fissò i nomi dell’Oceania, dopo un lunghissimo dibattito che vide coinvolti gli intellettuali di molti Paesi europei, tra cui la non-ancora Italia. Da allora, anche i «nativi» hanno cominciato a parlare di Oceania e a definirsi polinesiani e melanesiani. La cartografia ha un singolare potere di «fabbricazione» di luoghi e popoli, anche se questi ultimi hanno, a loro volta, il potere di imporre significati nuovi e imprevisti a quelle rappresentazioni. Melanesia, per esempio, è divenuto nel tempo un termine di orgoglio etnico, un po’ come la negritude in Africa e America. E se, tra i popoli indigeni del Pacifico, si parla oggi di Blue Continent (in curiosa assonanza con il Mondo Marittimo a lungo impresso sulle carte italiane), Oceania è divenuto un termine capace di dar conto della relativa somiglianze di molte lingue e culture di questa parte di mondo.
Balbi, il napoletano Ferdinando de Luca, il toscano Francesco Marmocchi, riorientarono più tardi i loro interessi verso la nascente cartografia dell’Italia, un lavoro destinato a costruire un immaginario geografico patriottico. La Gran Carta d’Italia pubblicata a Milano nel 1845 da Giuseppe Civelli fu non a caso dedicata all’«illustre geografo italiano» Adriano Balbi, a cui venne reso il merito di aver messo in evidenza le «frontiere naturali d’Italia». È più che curioso, forse politicamente rilevante oggi, osservare che i numerosi geografi e cartografi delle scuole di Venezia, Milano, Napoli e Firenze, che ebbero un ruolo importante prima nel battezzare l’Oceania e poi nel naturalizzare i confini del loro nascente Paese, furono «europei» prima di divenire italiani.